In data 27 luglio 2022, l’Aula del Senato ha respinto l’emendamento della senatrice Maiorino che chiedeva la possibilità di adottare la differenza di genere nella comunicazione istituzionale scritta.

L’emendamento prevedeva che il “Consiglio di presidenza stabilisse i criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell’attività dell’amministrazione fosse assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l’adozione di formule e terminologie che prevedessero la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne”.

La norma avrebbe introdotto nel linguaggio istituzionale scritto i termini ‘ministra’ e ‘senatrice’, oppure ‘la presidente’, in pratica la declinazione al femminile per tutti i ruoli, con l’abbandono del genere unico.

La proposta ha ottenuto 152 voti favorevoli, non sufficienti a raggiungere la maggioranza assoluta necessaria per questa votazione.

Contrari soprattutto Fdi.

Eppure sarebbe stato importante approvare questa istanza, perché se si attribuisse a un uomo una connotazione femminile quell’uomo si ribella. Allora il rispetto passa anche per la restituzione del genere. Non è una questione semantica, è una questione di concetto per il rispetto della diversità.

Una donna non vuole essere chiamata senatore, come un uomo non gradirebbe essere definito senatrice, a meno che non sia lui a chiederlo perché ha deciso di cambiare genere. O no?

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